Luogo del cuore = lì dove le emozioni e i ricordi si fondono.
Posti che resuscitano scampoli di vita passata.
Luoghi in cui hai lasciato pezzi di te.
In una casa dell’infanzia che ha significato Famiglia nel bene e nel male (ma sopratutto nel bene), sotto un pergolato che ti ricorda una domenica di chiacchiere, risate e zero pensieri. In un vicolo dove hai dato il primo bacio. Una chiesa sconsacrata che si affaccia sul mare dove per la prima volta hai pensato a quello che sarebbe potuto essere il tuo futuro. Un prato verde senza fine, in mezzo ai sorrisi stranieri di gente sconosciuta, dove ti sei sentita per la prima volta veramente libera..
Un’isolotto nella laguna pieno di casine colorate. Dove ogni volta passeggi con il sorriso e dove hai detto di sì all’uomo che ami. Un sentiero nel bosco dove andavi a camminare da piccola con il nonno e le montagne dove sei cresciuta.
L’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Ma oggi i miei ricordi si fermano al primo luogo del cuore.
Quella casa dell’infanzia che abita ancora dentro di me, anche se non è più casa della mia famiglia da quando il nonno è morto ed è stata, haimè, venduta.
I ricordi sono tutti li.
Delle corse a perdifiato sulla collina in cerca di cavallette e grilli parlanti. Nel bosco a raccogliere le prime primule e i ranuncoli. La camomilla che ci preparava la nonna (la Bonomelli non filtrata con un po’ di zucchero e di limone…che chissà perché non ha mai più avuto lo stesso gusto e lo stesso sapore di quando eravamo piccole – parlo al plurale perché per me quella casa era dove sono cresciuta insieme a mia cugina). La lunga tavolata che si affacciava sul lago dove il nonno sedeva sempre a capotavola e dove non mancava mai il buon vino (‘bevi che fa sangue’ era il motto del nonno), il buon cibo che cucinava la nonna (la lingua con la salsa verde e le lumache di quando era festa, il gateaux di patate, il gelato alla nutella fatto in casa, la pasta pasticciata, il bollito con le mostarde e il cren sotto Natale, la vellutata di spinaci, gli arrosti con le patate della domenica dopo la messa). I litigi senza senso. Le risate di gusto. Le pacche sulle spalle. Il fuoco che crepitava nel caminetto. Il profumo di pino che aveva quella casa. Il rumore della vecchia caldaia in cucina che ancora se chiudo gli occhi lo sento, come quando ero lì, rannicchiata sotto mille strati di coperte e mi svegliava all’improvviso la mattina mentre ero ancora nel torpore del dormiveglia.
Plois. La casa dei nonni. La casa dell’infanzia. Dell’orto e dei roseti della nonna. Delle fragole che crescevano selvatiche in giardino. Di ‘Nino del pane’ che arrivava su con il fiorino tutte le mattine e suonava il clacson quando era in curva. Del fruttivendolo che arrivava ogni due settimane il venerdì mattina con il suo furgoncino dalla pianura. A portare non solo verdura ma anche le chiacchiere di città e il sorriso a mia nonna che si vestiva di tutto punto e metteva sempre la collana di perle per l’occasione.
Della sagra di Sant’Anna a fine estate. La cena in terrazza, la corsa in paese per giocare ‘alla pesca’ e fare due balli in pista per poi salire prima della mezzanotte e guardare i fuochi d’artificio da un belvedere d’eccezione.
I cervi che pascolavano nella bruma delle mattine d’autunno. Davanti a casa, sotto il giardino.
Una versione di me in miniatura a 5 anni che andava la mattina presto d’estate a manina con la nonna a prendere il latte fresco nella stalla della Rosina con il secchiello di latta.
I due scoiattoli che si arrampicavano nell’albero di fronte alla finestra della cucina.
Il primo tentativo di sigaretta (al mentolo, misaremente fallito) con mia cugina. A 10 anni, sotto il terrazzo, vicino alla catasta della legna mentre nonna non ci vedeva (nell’ignoranza/innocenza di non sapere che per accendere una sigaretta bisognava aspirare e con il serio rischio di bruciare mezza casa e di farci miseramente scoprire).
L’orologio a cucu’. In soggiorno. A segnare le ore. E il nonno a ricaricarlo con pedissequa attenzione nel rito serale quotidiano.
Le minestrine in brodo con il dado e le stelline e un mucchio di grana grattugiato. I formaggini Mio nella pasta in bianco (rigorosamente tagliatelle).
Io e mia cugina che ci nascondevamo in bagno chiudendoci a chiave e poi scappavamo di casa uscendo dalla finestra che dava sul cortile laterale.
L’albero sopra la collina. Sotto il quale spesso mi sdraiavo a guardare di che forma fossero le nuvole.
Ecco…Tutto questo è riemerso in un attimo. Domenica.
Un pranzo al Dolada.
Il ristorante stellato che ti da il benvenuto appena valichi il cartello con scritto ‘Plois’, sulla sinistra, nella curva che si inerpica in salita verso un gruppetto di case che fanno questo paese di poche anime. Una casa gialla dagli infissi bianchi. Che quando ero piccola era gestito da Enzo De Prà e oggi mantiene fede alla sua storia e si rinnova con la cucina di Riccardo…uno chef che conquista non solo per la sua cucina che mantiene ogni promessa e sorprende per carattere e il mix tra innovazione e tradizione e la capacità di interpretare questi Luoghi e i boschi dell’Alpago (che diventano l’orto…) ma anche per la sua sorniona e delicata simpatia. Naif nel suo cappello di feltro e la camicia a fiori oltre al grembiule da chef e amante di questa Plois e di questo Alpago che lo ha visto crescere.
Un luogo, il Dolada ristorante, che ti accoglie con sobria eleganza, un servizio impeccabile (non affettato ma caldo di simpatia e sorrisi). Sembra di essere nel salotto di casa, intimo e accogliente. Un tavolo di legno di carpine , delle ottime bollicine (Franciacorta Cavalleri e un metodo classico delle nostre zone, etichetta Alice G., un vino che stupisce e sorprende come Alice nel suo Paese delle Meraviglie) e una cucina che emoziona e che dall’antipasto al dolce finale ci accompagna nel ricordare quello che per noi è stata Plois e questo pezzo di Alpago.
Il benvenuto dello chef: siamo in montagna ma i gusti, questa volta, ci accompagnano in Asia. Un maiale in gelatina che a me ha ricordato subito la Cina. Nel profumo e nei sapori. Il tocco nostrano: una deliziosa spuma di crèn che vira il gusto verso i nostri luoghi e le nostre tradizioni.
Gli antipasti ci portano ‘a passaggio’ nel sottobosco.
Una corteccia su cui si adagia una tartare di cervo divina e un assaggio ‘tra crudo e cotto’ delle carni dell’Alpago (dall’agnello, alla selvaggina al classico pastin).
Nei primi piatti le parole d’ordine sono semplicità e creatività: una carbonara ‘alla Riccardo’ che destruttura gli ingredienti e lascia a noi il compito di giocare a comporre questo spaghetto perfettamente al dente; una crema di zenzero, champagne e capesante delicatissima; un risotto con lumache che riporta alle domeniche a pranzo dalla nonna.
Nei secondi piatti di carne la conferma di una cucina di livello. Un agnello sublime sia nella sua versione ‘in tecia’ domenicale che in quella impanata delle costolette che si sciolgono in bocca. Un vitello tonnato alla vecchia maniera, cavallo di battaglia immancabile nel menu del Dolada. Il tutto accompagnato da verdure di stagione dell’orto che conquistano per semplicità e sapori genuini al naturale.
Si termina in dolcezza e bellezza con una crema allo zabaione, moscato e fragole; una Pina Dolada, versione ‘dolce’ del celebre cocktail (noce di cocco, spuma al rum, gelato all’ananas) e una cheesecake al pistacchio.
Con il caffè una deliziosa pasticceria con spiedini di frutta caramellata, bicchierini di cioccolata e liquirizia, piccole tartatèn di frutta e deliziosi bignè.
Lasciamo il Dolada con il sorriso e una dolce malinconia…Quella dolce e bella, per l’appunto. La malinconia che solo l’emozione dei ricordi magici dell’infanzia porta con sè. La sensazione sulla pelle di un ‘luogo’ del cuore che non è solo nella memoria, ma dopo tanti anni, scopri essere ancora lì, vivo, pronto per diventare lo scenario di quelli che saranno i nuovi ricordi nel futuro.